Tempo fa qualcuno mi ha chiesto se ora, per come vivo e per ciò che faccio, voi sareste orgogliosi di me. Non ho risposto e ad oggi, nonostante ci abbia pensato molto, continuo a non sapere cosa dire.
Sono sempre stata molto ligia al lavoro, mi dai una cosa da fare e io la faccio e quando non sai come fare mi invento qualcosa per fare in modo che quella cosa diventi realizzabile. Non mi dai niente da fare? E vabbè, qualcosa mi inventerò. Mi paghi, ti accontento e cerco di darti più di ciò che mi chiedi. Mi piace la fatica, mi libera dalla paura di ciò che mi capita di pensare, quando realizzo qualcosa stappo sempre una birra e il più delle volte più d’una. E mi diverto moltissimo. Festeggio, brindo anche da sola, torno a casa con la certezza di aver partecipato.
Il fatto che ultimamente non capiti poi così spesso rende le giornate lunghe, ma così lunghe che ormai il tempo perso tende a superare il tempo utile per non pensare.
Oggi ho fatto una cappella.
La cappella? Si, la cappella e no, non lo so tradurre se non con “uno di quei danni che faranno bestemmiare chi ti ha offerto un lavoro e ti smadonnerà in turco e sei pure parecchio cretina perché quell’errore si poteva evitare”. Ecco appunto, una cappella. Quella cosa lì che di sicuro darà dispiacere e farà perdere del tempo ai tanti che a quest’ora della sera dovrebbero essere già tra le braccia dei loro figli. E invece no, sono lì a cercare con te la soluzione e tu sei lì che vorresti servirgliela su un piatto d’argento, vorresti saper chiedere scusa eppure non riesci perché non c’è tempo per le scuse, è il momento di risolvere. E come la risolvi, come si risolve quel ritardo con il solo appuntamento della giornata veramente importante e ha valore e se non lo sai tu chi cazzo lo sa?
Che poi, oltre il danno la beffa.
Ho sbagliato in ciò che da piccola ti ho sempre visto fare. Mi ricordo, perché me lo ricordo come se ce l’avessi davanti, quando in cucina ordinavi le carte, i documenti, avevi scotch, post-it, raccoglitori, cartelline. Tutto perfetto, tutto ordinato meticolosamente, non ti sfuggiva nulla, un estratto, una cartella, uno scontrino. Tu amministravi la casa, papà, noi e lo facevi benissimo. Eri perfetta in quel ruolo, non c’era modo di sbagliare ed eri la gioia del nostro commercialista che con te aveva già tutto pronto per il risultato.
E quell’unica volta in cui hai sbagliato l’abbiamo pagata a caro prezzo. No vabbè, che c’entrano i soldi, sono i tempi che sono stati sbagliati e se ora ci ritroviamo perse e incapaci è forse perché allora avremmo dovuto piangere una volta in più. Ma no, non c’era tempo e va bene, si pensa ad altro.
Hai sbagliato una sola volta e solo per stanchezza, perché ad un certo punto anche i super eroi mollano la presa e si lasciano andare e lo Stato ha aspettato giusto qualche giorno da che te ne sei andata per ricordarci quel tuo unico e solo momento di stanchezza.
Avevi ragione quando dicevi che bisogna tenere gli occhi aperti con quella gente addestrata a speculare sulle vite degli altri, avevi ragione a passare quei pomeriggi tra carte e cartoleria per fare in modo che tutto diventasse più chiaro a te e agli altri.
Se avessi avuto il tuo talento, se fossi stata brava come te a mettere insieme le cose con chiarezza, oggi una madre sarebbe tornata prima da suo figlio anziché rimanere in ufficio a risolvere la mia cappella da inetta e distratta e che stupida che sono stata.
Non è solo quel tempo perso che proprio non accetto, ma il fatto di aver sbagliato in una di quelle cose che da sempre ci hai trasmesso. L’ordine aiuta, rende le cose più chiare e il mondo non è poi quel gran casino che vogliono farci credere. Che beffa davvero, ho sbagliato nell’esatto momento in cui ho pensato che se tutto fosse stato in ordine e perfetto e evidenziato con il rosso, il giallo e il verde, avrei realizzato il miracolo per cui mi stavano pagando.
E beffa delle beffe, la capa e il capo dei capi che sminuiscono la mia cappella e mi dicono che va comunque tutto bene, ma loro non lo sanno che quell’errore è l’eredità che non ho avuto.
E ora, se ripenso a quella domanda, penso che no non saresti orgogliosa di me, e del tuo modo di fare così attento e mai sgarbato io non ho imparato proprio niente.
Vedo il ritaglio che si fa sempre più stretto, al punto che vedo spazio per due soli piedi. Oh ma’, quanto non mi piace questa cosa.
C’è un solo modo per arrivare a fare le cose in maniera perfetta: sbagliandole tante volte quante ne servono per correggerle.
Quindi chi fa una cosa perfetta è qualcuno che ha sbagliato molto, non qualcuno che non sbaglia mai.
Il fatto di non aver memoria di errori non significa che non siano stati commessi, ma solo che sono stati superati e non più ripetuti.
E un po’ mi viene in mente la mail di ieri, così involontariamente coincidente in quel suo dirti che l’assenza dell’attenzione altrui ci spinge a diventare più attenti noi e che è proprio in questo che l’assenza di esempi si tramuta in esempi eterni rendendo a sua volta eterna la loro guida.
Hai provato a fare una cosa nel modo sbagliato e l’hai sbagliata, senza esempi la volta successiva potresti provare un modo altrettanto sbagliato per farla e invece hai un esempio giusto da seguire.
Questo fa di te una persona che dall’errore ha imparato e che dall’esempio può estrarre la fortuna di non dover improvvisare una seconda volta.
La differenza tra una persona della quale andare orgogliosi e una no, non è in chi delle due ha sbagliato ma in chi delle due è corsa ad attribuire ad altri la responsabilità dell’errore.
Assumersi le proprie come prima scelta e non solo dopo che qualcuno le ha dimostrate, è una delle prime cose che identificano una persona di valore, della quale quindi una persona di altrettanto valore sarebbe andata evidentemente e ovviamente orgogliosa.
Non si tramanda il colore degli evidenziatori, per quello basta un cartolaio, si tramanda il colore dell’umiltà e quello dell’onestà.
E’ quando li realizzi entrambi che hai davanti il miracolo, che è tale proprio perché lo si può realizzare sia quando si fa una cosa giusta sia quando la si sbaglia.
(e poi un segreto segretissimo più terra-terra: quando chi ti ha commissionato un lavoro che hai sbagliato ti tranquillizza, è perché l’errore è molto più piccolo di quanto lo percepisca tu. Quando io facevo selezione prendevo solo quelli che a domanda “Sai fare questa cosa?” rispondevano “Non lo so”. Poi sbagliavano come tutti. Poi non sbagliavano più. Non ne ho sbagliato uno)
E infatti il dramma non è l’errore in quanto errore, ma le conseguenze di quell’errore di cui, vuoi il caso vuoi la certezza che nulla capita per caso, proprio il giorno prima s’era parlato. Come solo le donne tra loro riescono a fare.
L’amarezza resta e si, non la riporrò nel dimenticatoio per quell’assurda tendenza di insabbiare i dispiaceri solo per smettere di pensarci.
Non è masochismo, è che tendo a dimenticare in fretta.
(senti ma…TU facevi selezione? No ma, ah ah, scusa se rido, non è che non ti creda anzi e non ti burlo mica, no no, è che proprio devo sforzarmi tantissimissimo per immaginarti nel ruolo di quello che ti chiede “il tuo miglior pregio e il tuo peggior difetto”. Ma forse tu non sei uno di quelli, tu al massimo chiedi chi come e cosa hai votato alle ultime elezioni 😛 )